Dopo una lunga interruzione, il sito www.ecologiapolitica.org torna in rete e sarà aggiornato periodicamente dandone comunicazione a chi è iscritto alla rete di Ecologia Poltica: (ecologiapolitica@yahoogroups.com). Questo sito è la riproposizione aggiornata di quello avviato negli anni 1990, con la pubblicazione della rivista Capitalismo Natura Socialismo: una rivista “corsara” uscita in Italia negli anni 1990 nel filone teorico della “seconda contraddizione” formulata dall’economista ecomarxista statunitense James O’Connor, fondatore della rivista Capitalism Nature Socialism, in collegamento con altre riviste di ecologia politica in Spagna (con Juan Martinez Alier) e in Francia (con Jean-Paul Deléage). Il sito ha lo stesso titolo del precedente, perché siamo ancora convinti oggi come ieri che l’ecologia politica si deve occupare di come conciliare le scelte politiche e di gestione della polis, della città e della comunità con le leggi della natura. Non si possono infatti adattare le leggi della natura con le scelte della politica: la politica permette spesso di costruire sul greto del fiume, sperando forse che l’acqua vada dalla foce alla sorgente; ma la natura vuole che l’acqua vada dalla sorgente alla foce, scorrendo lungo torrenti, valli e fiumi, e la politica deve pertanto lasciare il greto dei fiumi sgombro da ostacoli, siano essi costruzioni speculative private o strade e ponti pubblici utili, ma costruiti nel posto sbagliato. La natura è la fonte di ogni valore d’uso, e le scelte umane dovrebbero rispettare la natura per soddisfare utilità umane, in modo di ottenere dalla natura le grandi ricchezze che essa nasconde senza alterare i suoi cicli, o alterandoli il meno possibile: non per amore feticistico della natura, ma perché le alterazioni dei cicli naturali si traducono in violenza contro gli esseri umani vicini e lontani, anche nel futuro. Le parole chiave dell’ecologia politica sono quindi conoscenza delle leggi della natura, rispetto delle stesse da parte dei governi e dei cittadini, previsione e prevenzione degli effetti che le azioni umane hanno o possono avere sulla natura, anche in termini di costi monetari oltre che umani.
Il sottotitolo di questo sito, “Ricerche per l’alternativa” è nuovo, e riprende il nome della associazione culturale di CNS, per sottolineare che l’ecologia politica si propone anche di dare visibilità e voce ai movimenti sociali, che in tutto il mondo praticano la cultura della alternativa rifiutando la logica capitalista secondo cui la natura è un insieme di input destinate alla produzione di merci da scambiare sul mercato e non un organismo vivente, dotato di una sua autonomia. La concezione capitalista ha permesso di legittimare il saccheggio e lo spreco di natura e la sua libera appropriazione da parte delle imprese e ai danni delle comunità e delle popolazioni. Le élites hanno così scelto il modello di vita e l’assetto sociale a loro più confacenti, e hanno ottenuto il consenso popolare su queste scelte grazie alla costruzione di alleanze trasversali come quella tra produttori e acquirenti dell’automobile come mezzo di trasporto individuale. Le comunità e le popolazioni locali sono state espropriate delle risorse naturali sulle quali vivevano ed è stato loro impedito di partecipare alla definizione delle scelte che le riguardano. La crisi attuale, caratterizzata dal dominio della finanza e della speculazione finanziaria, viene spiegata in mille modi senza mai chiamare in causa la natura e il mancato rispetto delle sue leggi. Stenta a diventare chiaro che la Terra non si governa con le leggi dell’economia ma con le leggi della natura. Neanche di fronte al cambiamento climatico, la crisi ecologica è diventata una priorità della politica, che continua a presentare la crisi finanziaria come il baratro in cui bisogna evitare di cadere “costi quel che costi”. Viene così spostata l’attenzione delle popolazioni dai problemi stringenti della loro vita concreta alla questione “astratta” della finanza, che è al di fuori del loro controllo. Avere trascurato il vincolo della natura, ha permesso alle imprese di realizzare un modello di produzione e consumo che massimizza il profitto mentre saccheggia la natura e depotenzia i lavoratori, rendendoli sempre più dipendenti dalle loro scelte.
Con la globalizzazione neoliberista, tutto è cambiato ma la natura resta ai margini della discussione pubblica e della cultura mainstream, oggi come ieri. Al centro del discorso di una parte della sinistra, specie in Italia, ci sono ora i beni comuni, soprattutto quelli culturali, quelli sociali e quelli digitali, mentre restano in secondo piano i beni comuni legati alle risorse naturali essenziali alla sopravvivenza. Persino il recente il referendum sull’acqua “pubblica” si è attestato sulla gestione del servizio idrico lasciando sullo sfondo la risorsa acqua dalla cui destinazione dipendono il modello di produzione e quello di consumo. Gli squilibri naturali derivanti dall’oblio della natura vengono pertanto gestiti come emergenze, che riproducono altre emergenze più gravi, in un processo cumulativo che rende “insostenibile” il sistema e porta – passo dopo passo – alla crisi ecologica, economica, sociale e politica. Da questa crisi non si esce rilanciando il modello che ne è la causa: serve un cambiamento radicale di paradigma, che è anche un cambiamento culturale. I beni comuni possono incarnare questo nuovo paradigma perché mettono in discussione il capitalismo da tre angolature: l’economia di mercato, e quindi la mercificazione di cose e persone; la proprietà pubblica e privata, e quindi lo sfruttamento del lavoro e della natura; la delega insista nella democrazia rappresentativa, che nella globalizzazione neoliberista non garantisce la partecipazione e il controllo dei cittadini. Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che i beni comuni sono il “limite”, senza il quale si cade veramente nel baratro e si compie la “tragedia dei commons” preconizzata da Garrett Hardin.
Il paradigma dei beni comuni, praticato dai movimenti sociali e ambientali che in tutto il mondo – incluso i paesi del Nord – lottano contro la recinzione/privatizzazione delle risorse e la cancellazione/espropriazione delle comunità che vivono/usano tali risorse, esprime una cultura basata sulla condivisione, sul legame sociale e sulla auto-organizzazione, governata da precise norme scritte o consuetudinarie accettate dalla comunità degli “utilizzatori”. La cultura dei beni comuni esiste anche nella produzione teorica di autori importanti come il giudice costituzionale italiano Paolo Grossi, lo storico inglese Edward Thompson, la statunitense Elinor Ostrom premio Nobel per l’economia nel 2009, la scienziata indiana Vandana Shiva, tanto per citare alcuni dei nomi più noti. Resta tuttavia minoritaria, soprattutto in Occidente: non fa parte del comune sentire ed è marginale nel dibattito pubblico.
Il sito di ecologiapolitica che oggi torna in rete si propone di diffondere la pratica e la cultura dei beni comuni, pubblicando materiali che ne allarghino la conoscenza affinchè l’alternativa trovi consenso da parte della popolazione e possa concretizzarsi. Occorre infatti evitare le scorciatoie che in Italia si presentano quasi sempre come derive politiciste, come fondare un nuovo partito politico ancorato ai beni comuni. Occorre insomma evitare che “tutto cambi affinché niente cambi”.
Davos 2018: diseguaglianze, o rimozione della natura (Giovanna Ricoveri)
Il World Economic Forum (Davos 23-25 gennaio 2018), dove i potenti della terra si riuniscono ogni anno per discutere del futuro, si era dato quest’anno l’obiettivo di “Costruire un futuro condiviso in un mondo fratturato”. Obiettivo impegnativo, tenuto conto dei moltissimi problemi che affliggono il mondo in questa fase, come documentato dal rapporto Oxfam sullo stato sociale del pianeta pubblicato pochi giorni prima del Forum, e dal Global Risks Report, redatto dallo staff del Forum.
Dal primo rapporto, si apprende che l’1% della popolazione mondiale continua a disporre di una ricchezza pari a quella del restante 99% della popolazione; che a metà della popolazione mondiale non è andato neanche un centesimo della ricchezza prodotta nell’anno; che il rapporto tra il reddito dell’abitante più povero della terra e quello del più ricco ha raggiunto il livello stratosferico di “uno a un milione e mezzo”, dando luogo a diseguaglianze difficili da gestire e causa di instabilità sociale e di conflitti geopolitici. Dall’altro rapporto, si apprende che i rischi globali sono aumentati nel corso dell’anno appena trascorso: quelli ambientali come il cambiamento climatico, gli eventi meteorologici estremi, i disastri naturali, le crisi idriche, i rischi da impatto ambientale come quelli provocati dalle armi di distruzione di massa, e infine quelli derivanti dal mancato controllo delle nuove tecnologie cibernetiche.
Tutti d’accordo su questa analisi, che descrive i problemi, ma non ne spiega le cause, da ricercare invece nelle leggi del capitalismo, che sfrutta la natura e le risorse naturali trasformandole in merci, per il profitto di pochi, e non per soddisfare i bisogni di molti. Un modello come questo, quando tende ad estendersi ad una popolazione di oltre sette miliardi di persone, entra in una crisi irreversibile perché non dispone più delle risorse naturali nelle quantità, qualità e localizzazione necessarie al suo funzionamento. I problemi economici, ecologici e sociali che si vengono a creare non possono più essere risolti con misure redistributive della ricchezza - supertassazione delle grandi ricchezze e delle superetribuzioni dei manager, o imponendo vincoli e divieti allo spreco e alla distruzione della natura. A questo punto il modello comincia a distruggere anche sé stesso e le sue stesse condizioni di sopravvivenza, come definite dallo studioso neo-marxista statunitense James O’Connor con la seconda contraddizione tra capitale e natura – seconda in ordine di tempo e non di importanza rispetto alla prima, quella tra capitale e lavoro.
Tutto questo sta accadendo da oltre 50 anni, dopo il primo shock petrolifero, tanto che oggi la ricchezza finanziaria “di carta” è più del doppio di quella reale: la festa è finita, e la prospettiva della catastrofe rende le elite rapaci nel tentativo di appropriarsi della ricchezza reale prima che sia troppo tardi, e questo favorisce la concentrazione della ricchezza. Ma la stragrande maggioranza dei governi, dei politici e dei commentatori sembra non essersene accorta, e continua a sostenere che le diseguaglianze socio-economiche sono un’importante causa di crisi, non una sua conseguenza, così come continua a non contrastare nessuno dei fenomeni responsabili del cambiamento climatico. Con l’eccezione di Papa Bergoglio, il papa venuto da lontano, che nella Enciclica “Laudato Sì” del 2015 si è schierato contro la logica della manutenzione e riparazione del modello dominante di matrice socialdemocratica, a favore di un modello alternativo dove lavoro e natura sono due facce della stessa medaglia, che si possono affrontare e risolvere solo vedendole come tali. Un modello fondato sulla eco-solidarietà, che sconfigga l’atteggiamento illuministico dell’uomo sulla natura, che resta invece il tratto dominante della cultura occidentale.
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